Per “cooperazione” si intende l’insieme di operazioni di aiuto che un soggetto (paesi ricchi o paesi industrializzati dell’OCSE, oppure organizzazioni non governative) mette in atto nei confronti dei paesi definiti “in via di sviluppo”. Il termine cooperazione viene sempre legato a sviluppo così da avere “cooperazione allo sviluppo” o “cooperazione con i Paesi in via di sviluppo” o “aiuto pubblico ai PVS”.
La nascita dello sviluppo (e di conseguenza del sottosviluppo e della logica della cooperazione allo sviluppo) si colloca, non solo per convenzione, al 20 gennaio 1949 quando il presidente statunitense Truman tenne al Congresso un discorso fondamentale. Dopo aver definito “sottosviluppati” un numero enorme di paesi, Truman affidò ai paesi sviluppati il compito di “operare per lo sviluppo” definendone chiaramente i binari: “Una maggiore produzione è la chiave del benessere e della pace”. Le nazioni si dividono in fuoriclasse e ritardatarie: sono “gli Stati Uniti ad emergere sulle altre nazioni per tecnica industriale e ricerca scientifica”. E Truman, mascherando l’interesse con la magnanimità, non esitò ad annunciare un programma di aiuto tecnico che avrebbe dovuto “eliminare le sofferenze di questi popoli con attività industriali ed un più alto standard di vita”.
Nasceva la corsa allo sviluppo e la stagione della cooperazione allo sviluppo.
Molte e diverse sono state le stagioni della cooperazione allo sviluppo:
Dalla fine della II guerra mondiale, fino agli inizi degli anni cinquanta. La motivazione politico-ideale.
La motivazione politico-economica (anni ’50)
Anni Sessanta. Motivazione etico-sociale
La cooperazione come marketing (dagli anni ‘ 70)
La cooperazione come sicurezza (anni ’90)
La cooperazione inutile e gli interventi umanitari
La cooperazione decentrata
Altrettanto diverse sono state le forme ed i canali assunti dalla cooperazione: bilaterale, multilaterale, multi-bilaterale, decentrata, ecc.
Nel tempo della globalizzazione la cooperazione allo sviluppo è messa radicalmente in discussione, ridotta per lo più a strategia di marketing delle grandi economie del nord oppure a “intervento umanitario” che, seppure lodevole nelle sue intenzioni, non opera mai (perché non lo può strutturalmente) sulle cause dei disastri umanitari su cui interviene.
In questi anni, proprio per superare i limiti della cooperazione bilaterale e multilaterale (riassumibili in centralismo, verticismo, decisionismo, settorialismo, assistenzialismo) ha preso avvio la cooperazione decentrata allo sviluppo umano. Una proposta che punta al collegamento tra comunità locali dei paesi in via di sviluppo e paesi industrializzati con lo scopo di promuovere lo sviluppo locale integrato e l’attuazione dei principi e metodi della carta di Copenaghen.
Un tentativo, questo, che cerca di “mettere al lavoro” la fattiva solidarietà che nasce tra realtà locali, quindi tra esperienze reali di socialità. Un tentativo che riconosce la necessità di un “salto” antropologico prima che economico. Un salto capace di dare l’avvio non tanto ad una nuova cooperazione (che comunque obbedirebbe ad una concezione ormai superata dai fatti, ovvero al ruolo degli stati nazionali) quanto ad un “welfare planetario”, ad una rete di sicurezza sociale per tutti. Diritto per tutti, come sostiene la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948, artt. 22 e seguenti).
Anche in questo caso il nodo irrisolto rimane comunque quello di una “democrazia planetaria”.
Aluisi Tosolini